29 Febbraio 2024

Reati tributari: indebita compensazione ex art. 10-quater D. Lgs. n. 74/2000. Natura giuridica e riflessi sulla competenza territoriale. Commento alla sentenza della Cassazione penale, sez. III – 23.1.2024, n. 2794

 

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 2794 depositata il 23 gennaio 2024, è intervenuta sul dibattito giurisprudenziale avente ad oggetto la natura giuridica del delitto di indebita compensazione ex art. 10-quater del D. Lgs. 74/2000, definendo altresì il criterio di competenza territoriale applicabile.

Il caso: imputato del reato di cui all’art. 10-quater D. Lgs. 74/2000 è il legale rappresentante di una società a responsabilità limitata per non avere versato le somme dovute nel relativo periodo di imposta, procedendo ad indebite compensazioni con crediti inesistenti. In particolare, l’ultimo modello F24 con cui sono state effettuate le indebite compensazioni è stato presentato ad Avellino.

La Corte, trovandosi innanzi due diversi e contrapposti orientamenti giurisprudenziali, si trova a dover dirimere la questione relativa alla natura giuridica del delitto di indebita compensazione, chiarendo inoltre il criterio da applicare per individuare l’autorità giudiziaria competente.

In specie, si contrappongono due distinte tesi:

  • la tesi minoritaria qualifica il delitto in esame come reato omissivo istantaneo e, ai fini della determinazione della competenza per territorio, nella conseguente impossibilità di fare riferimento al luogo di consumazione, ritiene applicabile il criterio sussidiario del luogo di accertamento del reato ai sensi dell’art. 18, co. 1 del D. Lgs. 74/2000 (in tal senso: Cass. Pen., Sez. III, 12 dicembre 2019, n. 6529).
  • la tesi maggioritaria configura il delitto de quo come reato a consumazione (eventualmente) prolungata che si consuma nel momento della presentazione dell’ultimo F24 relativo all’anno interessato, in quanto, con l’utilizzo del modello F24, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell’indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale. (In tal senso: Cass. Pen., Sez. III, 11 ottobre 2018, n. 4958; Cass. Pen., Sez. III, 23 giugno 2020, n. 23027; Cass. Pen., Sez. III, 10 febbraio 2023, n. 23962)

Secondo la Corteva, dunque, ribadita la costruzione del delitto di cui all’art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 quale reato a consumazione (eventualmente) prolungata, e non come reato (eventualmente) permanente, in quanto può essere realizzato con una o più condotte, consistenti nell’utilizzazione in compensazione di crediti inesistenti attraverso una o più presentazioni telematiche di modelli F24, e quanto è realizzato con più condotte, ciascuna di esse resta autonoma e materialmente distinta dalle altre, ponendosi con queste in rapporto di soluzione di continuità, senza determinare una ininterrotta protrazione nel tempo della lesione dell’interesse protetto.

Conseguentemente, la competenza deve essere individuata facendo riferimento al luogo in cui è stato presentato l’ultimo F24 con cui è stata eseguita la compensazione illecita.

Leggi la sentenza – Cass. Pen., sez. III, 23.1.2024, n. 2794

 

16 Gennaio 2024

La violazione degli obblighi gravanti sul datore di lavoro non può fondare la responsabilità dell’ente. Commento alla sentenza della Cassazione penale, sez. IV – 28.12.2023, n. 51455

 

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 51455 depositata il 28 dicembre 2023, è tornata a pronunciarsi su tematiche di grande attualità: la responsabilità delle persone giuridiche ex D.lgs. 231/2001 per gli infortuni sul lavoro, con particolare riferimento alla fattispecie di cui all’art. 25-septies del D.lgs. 231/2001 rubricato “Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”.

Il tragico evento vede come protagonista un operaio dipendente di una Società addetta al disboscamento di un terreno scosceso e terminante in una ripida scarpata. Il lavoratore, nell’atto di prendere le ramaglie lasciate lungo il pendio e trasportarle in una zona pianeggiante, era precipitato riportando lesioni tali da cagionarne il decesso.

I Giudici di merito, in primo e secondo grado, hanno ritenuto da un lato il datore di lavoro, il responsabile di cantiere e il caposquadra-preposto responsabili del delitto di omicidio colposo, dall’altro l’ente responsabile dell’illecito previsto dall’art. 25-septies del D.lgs. 231/2001, in quanto “pur avendo adottato i documenti previsti per la previsione dei rischi ed indicato i soggetti responsabili della loro attuazione, in concreto si era dato una struttura gestionale ed organizzativa inadeguata rispetto agli obiettivi previsti da quei documenti”.

La Società ha proposto ricorso per Cassazione lamentando principalmente che la Corte di merito aveva ritenuto sussistente in capo all’ente la colpa di organizzazione in maniera illegittima e immotivata, posto che la stessa: 1. si era dotata della documentazione attestante l’avvenuta valutazione dei rischi; 2. aveva fornito ai lavoratori i necessari dispositivi di protezione; 3. aveva ritualmente predisposto il piano operativo di sicurezza (POS) che indicava le tutele da adottare in caso di terreni pendenti o scivolosi; 4. aveva designato un soggetto preposto. Secondo il ricorrente, avendo l’ente designato un preposto, in ragione dell’avvenuta ripartizione delle competenze, eventuali profili di colpa avrebbero potuto individuarsi nella sola condotta dello stesso, deputato alla concreta gestione del rischio previamente e correttamente individuato dall’ente.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso dell’ente, ha annullato con rinvio la sentenza impugnata.

Questi i principi di diritto enunciati dalla Corte di Cassazione.

Preliminarmente è stato ribadito come l’elemento attorno al quale gravita la responsabilità da reato delle persone giuridiche sia la colpa di organizzazione, fondata sul “rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli”.

Ciò posto – ed ecco il primo punto fondamentale della sentenza in commento – la Corte specifica che “il modello organizzativo non coincide con il sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato sul documento di valutazione dei rischi di cui al D.lgs. n. 81 del 2018”. Infatti, se il documento di valutazione dei rischi (DVR) “individua i rischi implicati dalle attività lavorative e determina le misure atte a eliminarli o ridurli”, il modello di organizzazione è uno “strumento di governo del rischio di commissione di reati” individuati dalla disciplina 231 potenzialmente integrabili da parte dell’ente. Pertanto, il modello di organizzazione non si riduce al documento di valutazione dei rischi (DVR) o al piano operativo di sicurezza (POS), configurandosi piuttosto come “sistema aziendale preordinato al corretto adempimento delle attività di valutazione del rischio”. In altri termini, il modello di organizzazione “delinea l’infrastruttura che permette il corretto assolvimento dei doveri prevenzionistici, discendenti dalla normativa di settore e dalla stessa valutazione dei rischi”.

Infine, la Corte enuncia un secondo principio significativo: “edificare la responsabilità dell’ente su condotte che sono riferibili, in astratto prima ancora che in concreto, esclusivamente alla persona fisica rappresenta un errore giuridico”.  Emblematico, in questo senso, è l’errore in cui è occorso il Tribunale che, pur riconoscendo come l’ente si fosse dotato di tutti i documenti previsti per legge ai fini della prevenzione del rischio e avesse indicato i soggetti responsabili della loro attuazione, ha fatto poi gravare sull’ente medesimo la carenza e l’inadeguatezza delle misure adottate in concreto per il controllo dell’applicazione delle prescrizioni previste dai piani di sicurezza. È evidente l’equivoco: l’ente non deve essere associato al datore di lavoro nel rimprovero per omissioni di cautele che competono al datore di lavoro persona fisica. I Giudici di merito, sfumando la distinzione tra responsabilità dell’ente e della persona fisica, hanno evocato obblighi facenti capo al datore di lavoro, invece che profili di colpa della società, per fondare la responsabilità di quest’ultima. Ma – non può che ribadirsi – il confine tra responsabilità del datore di lavoro e responsabilità della persona giuridica deve essere mantenuto ben demarcato.

Questa pronuncia enfatizza la necessità di collocare la responsabilità delle persone giuridiche con tutti gli elementi che la costituiscono in una “dimensione autonoma” che non deve ridursi all’analisi degli strumenti specificamente previsti per la valutazione del rischio in tema di sicurezza sul lavoro e che non deve essere indebitamente sovrapposta agli obblighi gravanti sul datore di lavoro.

Leggi la sentenza – Cass. Pen., sez. IV, 28.12.23, n. 51455

24 Febbraio 2023

Riforma Codice Appalti: l’esclusione dalle gare di appalto potrà essere determinata dalla mera contestazione di un illecito ex D.Lgs. n. 231/2001. Dubbi di legittimità costituzionale.

Lo Schema di decreto legislativo recante il Codice dei contratti pubblici, approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 dicembre 2022 (ora all’esame delle Commissioni parlamentari) e che dovrà essere approvato entro il 31 marzo 2023, prevede importanti novità in tema dei requisiti per la partecipazione alle gare d’appalto. Il testo è composto da 229 articoli e 28 allegati di natura regolamentare, che renderanno la disciplina di autonoma e di immediata applicazione.

La principale novità è costituita dal fatto che tra “le cause di esclusione non automatica” (art. 95 dello schema di decreto) viene ora previsto come “illecito professionale grave” idoneo ad escludere dalla partecipazione alle gare anche la mera “contestazione” di reati previsti dal D.Lgs. n. 231/2001.

Secondo l’art. 98, comma 4 lett. h, n. 5, tra gli illeciti professionali gravi che potrebbero determinare l’esclusione da una gara di appalto è infatti stata inserita la: “contestata o accertata commissione, da parte dell’operatore economico oppure dei soggetti di cui al comma 3 dell’articolo 94 di taluno dei seguenti reati consumati: […] 5) i reati previsti dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”.

Viene previsto, altresì, un allargamento dei soggetti nei cui confronti la contestazione potrebbe precludere la partecipazione alla gara.

Secondo l’art. 94, comma 3 (richiamato dall’art. 98, comma 4 lett. h, n. 5), la contestata o accertata commissione dei reati di cui al D.Lgs. n. 231/2001 può riguardare:

a) l’operatore economico ai sensi e nei termini di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231;

b) il titolare o del direttore tecnico, se si tratta di impresa individuale;

c) un socio amministratore o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo;

d) i soci accomandatari o del direttore tecnico, se si tratta di società in accomandita semplice;

e) i membri del consiglio di amministrazione cui sia stata conferita la legale rappresentanza, ivi compresi gli institori e i procuratori generali;

f) i componenti degli organi con poteri di direzione o di vigilanza o dei soggetti muniti di poteri di rappresentanza, di direzione o di controllo;

g) il direttore tecnico o del socio unico;

h) l’amministratore di fatto nelle ipotesi di cui alle lettere precedenti.

Nel testo dello schema di decreto viene poi precisato che, al fine di dimostrare le contestazioni degli illeciti ex D.Lgs. n. 231/2001, vengono considerati “adeguati mezzi prova” , “oltre alla sentenza di condanna definitiva, al decreto penale di condanna irrevocabile, alla sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, la condanna non definitiva, il decreto penale di condanna non irrevocabile, la sentenza non irrevocabile di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale” anche “gli atti di cui all’articolo 405, comma 1 del codice di procedura penale, il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 429 del codice di procedura penale o eventuali provvedimenti cautelari reali o personali” (art. 98, comma 7 lett. h).

Saranno, quindi, sufficienti anche provvedimenti emessi dal Pubblico Ministero senza alcun preliminare vaglio da parte del Giudice, i quali spesso necessitano lunghe tempistiche prima di un provvedimento definitivo, quali gli atti di cui all’art. 405 c.p.p., cioè gli atti con cui il Pubblico Ministero esercita l’azione penale, il decreto di citazione diretta a giudizio, la richiesta di emissione di un decreto penale di condanna o la semplice richiesta di rinvio a giudizio.

Come sopra anticipato, l’esclusione non è prevista come automatica, ma è sottoposta al giudizio della società appaltante che valuterà i provvedimenti motivando “sulla ritenuta idoneità dei medesimi a incidere sull’affidabilità e sull’integrità dell’offerente” (art. 98, comma 8).

L’Unione delle Camera Penali Italiane e l’Associazione dei componenti degli Organismi di Vigilanza ex D.Lgs. n. 231/2001, con comunicato in data 4.2.23, hanno opportunamente espresso profonde perplessità sulle novità previste dalla riforma sopra illustrata, ponendo in luce anche profili di illegittimità costituzionale di una simile impostazione.

Dallo schema di riforma deriverebbe infatti, sul fronte degli illeciti ex D.Lgs. n. 231/2001, che tra gli adeguati mezzi di prova idonei ad escludere l’operatore dalle gare, potrebbero essere sufficienti le contestazioni da parte del Pubblico Ministero alla società dell’illecito amministrativo dipendente dal reato presupposto (art. 59, comma 1, D.Lgs. n. 231/2001), la pronuncia del decreto che dispone il giudizio a seguito dell’udienza preliminare (art. 61, comma 2, D.Lgs. n. 231/2001), l’ordinanza applicativa della misura cautelare richiesta dal PM (art. 45, comma 1 e 2, D.Lgs. n. 231/2001) e l’adozione dei medesimi provvedimenti nei confronti delle persone fisiche indicate nell’art. 94, comma 3, per le fattispecie di reato previste dal D.Lgs. 231/2001.

In primo luogo, viene evidenziato come il far dipendere la decisione dell’esclusione dalla gara da un provvedimento privo del vaglio definitivo da parte dell’autorità giudiziaria si ponga in conflitto con il principio di presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma 2, Cost., applicabile anche alla persona giuridica.

Si è altresì rilevato che, pur non prevedendosi una causa di esclusione automatica, questo impianto normativo potrebbe presentare profili di illegittimità ove solo si consideri la sempre maggior applicabilità in ambito giudiziario della responsabilità degli enti, nonché la perenne tendenza all’allargamento del numero dei reati presupposto e, di contro, l’impossibilità per gli enti di aderire agli istituti riparatori e deflattivi, previsti per le persone fisiche.

Non da ultimo si deve sottolineare come la previsione delle modifiche organizzative, previste dall’art. 98, comma 5 e dall’art. 96 comma 6, ai fini dell’attenuazione della gravità dell’illecito professionale, potrebbe non consentire all’ente, che si sentisse ingiustamente incolpato, di difendere nel processo la bontà del proprio sistema organizzativo.

Queste considerazioni si sommano alla maggior censura, sopra meglio delineata, che vede l’operatore economico nella sostanziale impossibilità di contrarre con la Pubblica Amministrazione per il solo fatto di essere indagato o tratto a processo ed in perfetta assenza, quindi, di una pronuncia giudiziaria di accertamento di responsabilità passata in giudicato.

Si auspica, pertanto, che il testo definitivo del decreto ponga rimedio alle gravi criticità sopra evidenziate.

5 Ottobre 2022

Truffa a mezzo web – Sussiste l’aggravante della minorata difesa per la distanza tra vittima e agente: il reato è quindi procedibile d’ufficio.

La Cassazione si è recentemente pronunciata sul fenomeno delle truffe commesse con l’utilizzo del sistema informatico o telematico (Cass. Pen., Sez. II, 13.4.2022, n. 18252) affermando che “sussiste l’aggravante della “minorata difesa” – con riferimento alle circostanze di luogo (fisico), note all’autore del reato e delle quali egli, ai sensi dell’articolo 61, numero 5, del c.p., abbia approfittato – nell’ipotesi di truffa commessa attraverso la vendita di prodotti online, poiché, in tale caso, la distanza tra il luogo ove si trova la vittima, che di norma paga in anticipo il prezzo del bene venduto, e quello in cui, invece, si trova l’agente, determina una posizione di forza e di maggior favore di quest’ultimo, consentendogli di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta; vantaggi che non potrebbe sfruttare a suo favore, con altrettanta facilità, se la vendita avvenisse de visu”.

La configurabilità di tale aggravante rende pertanto il reato procedibile d’ufficio come previsto dall’art. 640 comma 3, c.p.. Nel caso esaminato dalla Corte, il Tribunale aveva ritenuto il reato estinto per intervenuta remissione di querela. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del Procuratore Generale affermando che, sussistendo nella fattispecie l’aggravante della minorata difesa prevista dall’art. 61 n. 5 c.p., richiamata dall’art. 640 comma 2 n. 2 bis c.p., il reato diviene procedibile d’ufficio.

LEGGI LA SENTENZA

30 Settembre 2021

Tabulati telefonici: interviene il Consiglio dei Ministri.

 

Il Consiglio dei Ministri è finalmente intervenuto per adeguare la normativa nazionale sull’acquisizione dei tabulati telefonici nel processo penale alla sentenza emessa dalla Corte di giustizia a marzo 2021 (CGUE, Grande Sezione, 2 marzo 2021, C-746/18).

Secondo la Corte di Giustizia, infatti, l’art. 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE (modificato dalla direttiva 2009/136/CE) “osta ad una normativa nazionale, la quale consenta l’accesso di autorità pubbliche ad un insieme di dati relativi al traffico o di dati relativi all’ubicazione […] per finalità di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati, senza che tale accesso sia circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica”. Parimenti, a giudizio della Corte la norma in parola “osta ad una normativa nazionale, la quale renda il Pubblico Ministero, il cui compito è dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitare, eventualmente, l’azione penale in un successivo procedimento, competente ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione ai fini dell’istruttoria penale”.

Recependo tale impostazione, nel decreto-legge approvato ieri il Consiglio dei Ministri ha quindi delineato la nuova disciplina dell’acquisizione dei tabulati telefonici.

Nel comunicato stampa diffuso ieri si legge infatti che “In linea col diritto comunitario e con la sentenza della Corte di Giustizia Ue del 2 marzo 2021, si stabilisce che solo con decreto motivato del giudice, su richiesta del pubblico ministero o su istanza del difensore, si possono acquisire presso il fornitore i dati del traffico telefonico o telematico, ai fini dell’accertamento del reato”.


Leggi il comunicato

27 Settembre 2021

Concussione: può commetterla il dipendente di una banca?

Con la sentenza n. 35261/21 (dep. 23.9.2021) la Suprema Corte si è soffermata sulla questione se e a quali condizioni il dipendente di un istituto di credito possa rendersi autore del reato di concussione ex art. 317 c.p.
Il caso oggetto della pronuncia della S.C. riguardava le condotte concussive poste in essere dal dipendente di un istituto di credito concessionario per l’istruttoria delle pratiche di ammissione ai finanziamenti ai sensi della legge n. 488/1992. Nello svolgimento della propria attività di istruttore della pratica di finanziamento richiesto da una Società, questi aveva infatti minacciato il socio dell’impresa di bloccare la pratica se non gli avesse versato indebitamente 15.000 euro.
Il Tribunale condannava l’imputato sulla scorta della ritenuta natura pubblicistica dell’attività svolta dall’istituto di credito concessionario ex l. 488/1992, essendo il finanziamento oggetto dell’istruttoria erogato dal Ministero dello Sviluppo Economico. In ragione di ciò l’imputato, unico dipendente preposto allo svolgimento di tali pratiche all’interno della banca e, conseguentemente, dotato dei relativi poteri certificativi, era stato ritenuto dal Tribunale un pubblico ufficiale. Tale pronuncia era poi stata sostanzialmente confermata dalla Corte d’Appello di Roma, la quale aveva però ritenuto che la qualifica ricoperta dall’imputato fosse quella di incaricato di pubblico servizio.
Chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto dall’imputato avverso la sentenza d’appello, la S.C. ha chiarito che, anche se “l’attività degli istituti di credito, normalmente esulante dall’ambito pubblicistico, vi è invece sottoposta per quelle funzioni collaterali svolte in campo monetario, valutario, fiscale e finanziario, in sostituzione di enti non economici nella veste di banche agenti o delegate, con la spettanza della qualifica di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio ai relativi operatori”, tale affermazione non può essere generalizzata.
Secondo la Corte, infatti, è con riferimento alla tipologia in concreto del finanziamento richiesto […] che vanno ricostruiti e verificati sia i corretti poteri pubblicistici dell’istituto di credito, per effetto della normativa primaria e di quella che ne regola l’attività giuridica, fra cui l’accordo e la convenzione e, soprattutto, i poteri di tipo pubblicistico effettivamente delegati o comunque esercitati o esercitabili dall’imputato nel quadro delle funzioni e delle mansioni svolte nell’ambito dell’istituto di credito”. In altre parole, è necessario procedere alla “precisa individuazione dei caratteri qualificanti dell’attività pubblicistica in concreto svolta dai soggetti agenti, che non è frutto di mero automatismo rispetto a quella dell’ente di appartenenza, poiché si richiede il concreto esercizio, in capo all’agente, delle funzioni pubblicistiche stesse dalle quali, come noto, esula lo svolgimento di attività meramente materiali.
Applicando tali coordinate al caso in esame, la Cassazione, ritendo che i giudici di merito non avessero approfondito la natura pubblicistica del ruolo svolte dal ricorrente, a dire di quest’ultimo consistenti “in mere attività istruttorie e preparatorie, nelle quali non era direttamente ravvisabile l’esercizio di un potere pubblicistico, rimesso ad un funzionario e ad organi diversi dell’istituto”, ha annullato con rinvio per nuovo giudizio la sentenza emessa dalla Corte d’Appello.


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1 Giugno 2021

Dichiarazione infedele e autoriciclaggio: necessari elementi di fatto concreti del reato presupposto.

Con sentenza depositata in data 27 maggio 2021 n. 20990 la Corte di Cassazione ha chiarito che l’elevazione dell’imputazione di autoriciclaggio presuppone il fumus della commissione del reato presupposto da parte dell’indagato.
Nel caso di specie la Suprema Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame di Piacenza aveva confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. nei confronti di due imprenditori, indagati per i reati di dichiarazione infedele e autoriciclaggio. Come chiarito dagli Ermellini, nella motivazione del provvedimento impugnato non erano stati indicati elementi di fatto idonei a ricondurre la vicenda nell’ambito del delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs. 74/2000, non avendo il Tribunale del Riesame individuato le dichiarazioni fiscali oggetto del reato, i soggetti che le avevano presentate, le annualità di riferimento, i ricavi omessi e le imposte evase in relazione ad ogni dichiarazione.
In sentenza la Corte ha quindi evidenziato come la “mancanza di motivazione sul fumus del delitto di dichiarazione infedele riverbera i suoi effetti anche sul reato di cui all’art. 648 ter 1 c.p., che postula l’esistenza del reato presupposto di dichiarazione infedele”; ciò in quanto “il mero possesso di un’ingente somma di denaro non può giustificare, in assenza di qualsiasi riscontro investigativo circa l’esistenza o meno di un delitto presupposto… l’elevazione di un’imputazione di riciclaggio”.


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12 Maggio 2021

Data retention e procedimento penale. Gli effetti della sentenza della Corte di giustizia nel caso H.K. sul regime di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici: urge l’intervento del legislatore.

Riflessioni sugli effetti della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, del 2 marzo 2021 (causa C-746/18) in tema di data retention, nell’ordinamento giuridico italiano ed in particolare sul regime dell’acquisizione e dell’utilizzazione dei tabulati telefonici e telematici nel procedimento penale.


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31 Marzo 2021

Reati tributari: si estende l’ammissibilità del patteggiamento anche senza estinzione del debito tributario.

 

 

Con sentenza n. 11620/2021 la Suprema Corte ha affermato che, anche in relazione ai reati di infedele e omessa dichiarazione (oltre che alle fattispecie di omesso versamento di  ritenute, di IVA, di indebita compensazione), l’accesso al rito alternativo del patteggiamento è consentito anche qualora il debito tributario non sia stato estinto.

Nel caso di specie, la ricorrente, legale rappresentante di una S.p.A., aveva impugnato la sentenza con cui la Corte d’Appello di Firenze aveva confermato la condanna di primo grado per il reato  di omesso versamento IVA, punito dall’art. 10 ter D. lgs. 74/2000, alla pena sospesa di anni uno di reclusione. Il Tribunale di Lucca aveva rigettato l’istanza di patteggiamento presentata dall’imputata poiché, essendo la società fallita, non vi era la possibilità di estinguere il debito tributario, come richiesto dall’art. 13 bis comma 2 D.lgs. 74/2000.

Nell’accogliere il ricorso proposto dall’imputata, la Corte ha fondato la propria decisione sulle seguenti considerazioni.

L’art. 13 bis comma 2 D.lgs. 74/2000 subordina normalmente la richiesta di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. al pagamento del debito tributario, comprese sanzioni amministrative ed interessi.

Tuttavia, la medesima norma fa salve da tale requisito “le ipotesi di cui all’art. 13 commi 1 e 2”, cioè i reati previsti dagli artt. 2, 3, 4, 5, 10 ter, 10 bis e 10 quater D.lgs. 74/2000.

In relazione a tali ipotesi di reato, l’art. 13 D. lgs. 74/2000 prevede, infatti, che l’adempimento del debito tributario configuri una causa di non punibilità del reato, con la conseguenza che non avrebbe senso subordinare al medesimo adempimento la meno favorevole istanza di accesso al patteggiamento.

Nonostante il caso di specie riguardasse la fattispecie criminosa ex art. 10 ter D.lgs. 74/2000, la Suprema Corte, nella motivazione, ha ritenuto tale principio applicabile non solo alle ipotesi di omesso versamento di ritenute, di IVA e indebita compensazione (artt. 10 bis, 10 ter e 10 quater comma 1 D.lgs. 74/2000), ma anche a quelle infedele o omessa dichiarazione (artt. 4 e 5 D.lgs. 74/2000).

La Suprema Corte ha chiarito che: “il pagamento del debito tributario – rappresentando in via radicale e pregiudiziale, causa di non punibilità dei reati ex articoli 10 bis, 10 ter e 10 quater, ed anche dei reati ex articoli 4 e 5  stesso decreto – non può logicamente, allo stesso tempo e per le stesse ipotesi, fungere anche da presupposto di legittimità di applicazione della pena che, fisiologicamente, non potrebbe cero riguardare reati non punibili”.

Tale pronuncia va a rafforzare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità consolidatosi sul tema, a favore del contribuente.

Si segnala, tuttavia, l’esistenza di un filone giurisprudenziale secondo cui, in senso contrario, per le fattispecie dichiarative, a differenza di quelle di omesso versamento, la richiesta di patteggiamento sarebbe effettivamente subordinata all’estinzione del debito tributario. Tale orientamento si fonda sulla considerazione che “l’espressione “fatte salve le ipotesi di cui all’art. 13, commi 1 e 2”, che chiude l’art. 13 bis, comma 2, D.lgs. n. 74 del 2000 va letta nel senso che la sentenza ex art. 444 c.p.p. può essere emessa allorché l’estinzione del debito sia avvenuta con tempi e modalità che non consentono la più radicale e favorevole dichiarazione di non punibilità del fatto ai sensi dell’art. 13” (in tal senso Cass. Pen., n. 47287/19 e Cass. Pen., n. 26529/2020).


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