La recente riforma del delitto di abuso d’ufficio – intervenuta con il d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120 – ha modificato la formulazione dell’art. 323 c.p., sostituendo le parole “di norme di legge o di regolamento” con la locuzione “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità“.
La Suprema Corte ha dunque ritenuto che tale nuova formulazione, restringendo l’ambito di operatività della fattispecie incriminatrice in parola, abbia comportato “una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma, siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità”.
La portata di tale pronuncia non è indifferente: con riferimento ai processi penali in corso, l’imputato accusato di aver commesso un fatto non più ricompreso nell’ambito applicativo dell’art. 323 c.p. dovrà essere prosciolto con la formula “perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato“; i soggetti condannati con sentenza definitiva o decreto penale di condanna, potranno invece chiedere al giudice dell’esecuzione la revoca del provvedimento ai sensi dell’art. 673 c.p.p..